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Studio Legale Petrucci offre ai propri clienti della zona di Roma e di tutta Italia assistenza e patrocinio su questioni di Diritto Penale, dalla consulenza preventiva alla difesa in giudizio. Offriamo la nostra esperienza legale a clienti di qualsiasi tipologia e dimensione. Chiamaci subito.

Palazzo di Giustizia

INFORMAZIONI SULLO STUDIO

Lo Studio, sotto forma di Associazione Professionale, è nato nel 2001, fondato dall’Avv. Libero Petrucci e dall’Avv. Marco Petrucci.

Sin dalla sua fondazione, gli associati hanno offerto assistenza stragiudiziale e patrocinio giudiziale sia in materia civile e amministrativo/tributaria, sia in materia penale.

Avvalendosi anche di professionisti di altri settori (commercialisti, geometri, architetti, ingegneri) hanno approfondito le tematiche bancarie e finanziarie, con particolare riferimento ai contratti di conto corrente e ai mutui fondiari, le questioni urbanistiche e della proprietà fondiaria, occupandosi anche delle questioni amministrative a esse legate (dal movimento terra, allo smaltimento dei rifiuti, ai permessi di costruire, alle lottizzazioni, agli appalti) e quelle penali (abusi edilizi).

 Oltre a coadiuvare privati e imprese nelle tematiche di ordine generale nei rapporti commerciali (contratti, codice del consumo, compravendite immobiliari), nella contrattualistica e nelle liti locatizie (sia di immobili a uso abitativo che commerciale, sia agli affitti d’azienda) e condominiali, hanno maturato significativa esperienza in rami particolari, quali la vigilanza anche armata, la sicurezza sul lavoro e la privacy.

Lo Studio affianca lavoratori e imprese nelle vertenze di lavoro e assicura assistenza e patrocinio nelle vicende relative alla famiglia, dalle questioni attinenti il vincolo matrimoniale, alla gestione dei figli, sia nel matrimonio che al di fuori di esso, alla amministrazione di sostegno alle persone non completamente autonome, sino alle questioni di diritto successorio.

In sede penale, lo Studio assiste indagati e persone offese sia nelle indagini preliminari che nei dibattimenti, oltre che nelle materie di più vasta diffusione (reati contro il patrimonio e la persona, lesioni, stalking, infortuni sul lavoro) anche in settori di maggiore specializzazione (reati finanziari, tributari e fallimentari).

Dal 2014 l’assistenza è assicurata anche avanti le giurisdizioni superiori.

Lo Studio si trova nel Centro di Ostia a poche centinaia di metri dalla Stazione del Treno Lido Centro ed è facilmente raggiungibile anche con auto privata, senza problemi di parcheggio.

I clienti sono seguiti personalmente dai due titolari dello Studio, senza intermediari e personale paralegale.

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Studio Legale Associato Petrucci

Avv. Libero Petrucci – Avv. Marco Petrucci

Patrocinanti in Cassazione e Giurisdizioni superiori

Viale Paolo Orlando, 58 – 00122 – Ostia ROMA

Tel./fax 06.5627699

PEC: liberopetrucci@ordineavvocatiroma.org - marcopetrucci@ordineavvocatiroma.org

Sito internet: https://avvliberopetrucci.wixsite.com/website

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ENTRARE IN MEDIAZONE NON PUÒ ESSERE UN ONERE.

La giurisprudenza che in tema di mediazione vuole trarre argomenti di prova dal rifiuto della parte di andare oltre il primo incontro deve necessariamente essere ripensata. Essa impone un obolo a favore del mediatore anche qualora non vi siano margini di composizione, e non considera che spesso il mediatore, essendo scelto dalla parte istante, non dà alcuna garanzia di terzietà tale da far conseguire al rifiuto di procedere nella mediazione una tale importante sanzione.
La parte istante di fatto può costringere il convenuto non solo a versare l'indennità di mediazione, ma financo a dover affrontare il merito della vicenda, eventualmente scoprendo le sue carte in sede stragiudiziale.
L'unica difesa sarebbe entrare in mediazione e subito interromperla, ma ciò non evita il pagamento della indennità e in ogni caso sarebbe condotta (seppure non verbalizzabile) evidentemente contraria allo spirito dell'istituto.
Di fatto entra dalla finestra quello che era uscito dalla porta, e cioè la necessità di pagare sempre e comunque l'indennità al mediatore. 
Stupisce la supina accettazione di tale giurisprudenza da parte dei colleghi.

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L’APPELLO NELLA RIFORMA CARTABIA: LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO, UN CASO DI BIPOLARISMO DEL LEGISLATORE DELLA RIFORMA

Ci occupiamo dell’appello civile delle sentenze rese dal Tribunale nello schema delineato dalla c.d. riforma Cartabia.
Per prima cosa conta ricordare che la riforma si applica a tutte le impugnazioni presentate successivamente al 28 febbraio 2023 (art. 35, comma 4, D.lgs. n. 149/2022), anche per le sentenze di primo grado emesse precedentemente a tale data.
Il termine dilatorio tra la notificazione dell’atto di citazione e la data della prima udienza è di 90 giorni (art. 342, ult. comma, c.p.c.).
Il bello viene con la costituzione del convenuto.
Infatti, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., essa avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al Tribunale.
Ora, il nuovo art. 166 c.p.c. dispone, per i procedimenti avanti il Tribunale, che il convenuto deve costituirsi almeno 70 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione.
Ne discende che l’appellato ha sostanzialmente 20 giorni per costituirsi (90-70).
Peraltro, avvenendo ormai la notificazione dell’appello per PEC, non c’è ragione di fissare udienze molto a lungo (per scontare i ritardi o i problemi delle notificazioni).
Ma la cosa più bella è un’altra.
Infatti, l’art. 343 c.p.c. stabilisce che l’appello incidentale deve essere a pena di decadenza proposto nella comparsa di costituzione depositata almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione ovvero della diversa udienza fissata a norma dell’art. 349 bis, comma 2, c.p.c..
L’antinomia mi pare evidente: la costituzione deve avvenire 70 giorni prima dell’udienza e l’appello incidentale, contenuto nella comparsa deve essere proposto almeno 20 giorni prima.
Delle due l’una: o il secondo termine è una mera dimenticanza del legislatore della riforma (perché se la costituzione deve avvenire 70 giorni prima non ha senso fissare il termine per l’appello incidentale 20 giorni prima dell’udienza di comparizione visto che esso deve essere contenuto nella comparsa di costituzione), oppure esso rappresenta un termine ulteriore e quindi: 70 giorni prima la costituzione, 20 giorni prima l’appello incidentale (ma in tal caso non si capisce come possa l’appello incidentale essere contenuto nella comparsa di costituzione).
Ragioni di prudenza difensiva spingerebbero per depositare tutto (comparsa e appello incidentale 70 giorni prima), di tal ché il povero avvocato dell’appellato ha poco più di venti giorni per: 1) convocare in studio la parte appellata (invio di raccomandata, a questo punto racc. 1, con avviso dello strettissimo termine a disposizione, fissare appuntamento, concordare compenso, ottenere l’acconto, etc.); 2) predisporre l’atto di costituzione e se del caso l’appello incidentale; 3) provvedere al deposito telematico.
Con esiti mortiferi in caso di imprevisti: parte all’estero, non rintracciabile, compiuta giacenza della raccomandata, e i mille altri problemi che solitamente si frappongono tra avvocato e cliente nel conferimento dell’incarico.
In più, l’avvocato ha altre cause, pratiche, adempimenti.

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REFERENDUM “CONTRO LA GUERRA” – UN QUESITO INEFFICACE

È in atto la raccolta di firme per il referendum abrogativo che nelle intenzioni del comitato promotore dovrebbe ritenersi finalizzato a opporsi alla guerra in Ucraina.

Ovviamente, esso si rivolge esclusivamente allo Stato italiano, e non certo agli altri attori internazionali del conflitto.

Venendo allo specifico, il quesito chiede di abrogare l’art. 1, comma 6, lett. a) della legge n. 185/1990 nella parte in cui vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto salvo “le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” (queste le parole di cui si chiede l’abrogazione, volendo così, in tesi, escludere i poteri del governo e delle camere che possono autorizzare le dette esportazioni).


Il comitato promotore non considera però che in realtà la cessione di armi all’Ucraina (nello specifico) è consentita dal D.L. 28/02/2022, n. 16 (art. 1) e dal D.L. 25/02/2022, n. 14 (art. 2-bis), quest’ultimo convertito nella l. 5 aprile 2022, n. 28, e prorogato sino al dicembre 2023 dal D.L. 185/2022 convertito nella legge n. 8/2023.

Tali disposizioni prevedono, per la fornitura di armi all’Ucraina, espressamente la deroga alla l. n. 185/1990, che oltre alla fattispecie di cui al comma 6, lett. a), oggetto del quesito referendario, indica ulteriori divieti di cessione di armi.

In buona sostanza, l’abrogazione della parte della l. n. 185/1990 che propone il comitato referendario NON avrebbe nessuna influenza sulla cessione di armi all’Ucraina, che resterebbe autorizzata dai Decreti Legge (e relative leggi di conversione) nn. 14/2022 (conv. nella l. n. 28/2022), 16/2022 e 185/2022 (conv. nella l. 8/2023).

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L’OXYMORON DEL NUOVO PROCESSO CIVILE: CHIAREZZA E SINTETICITÀ, SPECIFICITÀ E AUTOSUFFICIENZA.

La riforma Cartabia del processo civile interviene anche sulla tecnica redazionale degli atti: il D.lgs. n. 149/2022 ha introdotto un ultimo periodo all’art. 121 c.p.c., disponendo che “tutti gli atti del processo devono essere redatti in modo chiaro e sintetico”.
Prima di tutto: a chi si rivolge detta disposizione. Il riferimento a tutti gli atti del processo sembra chiamare in causa non solo le parti e segnatamente i loro difensori, ma ogni soggetto processuale, in primo luogo il giudice: in tal senso il monito a chiarezza e sinteticità deve ritenersi applicabile anche alle ordinanze e alle sentenze, se non che, mentre il giudice non rischia di incorrere in sanzioni, l’avvocato ha sul capo la spada di Damocle della inammissibilità
È pur vero che, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo se essa non è comminata dalla legge, e il citato art. 121 c.p.c. non prevede nullità per atti non chiari..
Però, se leggiamo il nuovo art. 342 c.p.c., in materia di appello, troviamo che a pena di inammissibilità l’appello, oltre che motivato, deve indicare in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione in fatto compiuta dal primo giudice; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
L’art. 342 c.p.c. aggiunge quindi, e a pena di inammissibilità, il requisito della specificità, a quelli, già previsti dall’art. 121 c.p.c. di chiarezza e sinteticità.
In tale contesto normativo, l’avvocato si trova a dover essere chiaro, specifico e sintetico nella redazione dell’atto d’appello, dovendo in più rispettare il “contenuto minimo” dell’impugnazione, sulla indicazione dei capi impugnati, della ricostruzione in fatto e della critica in diritto.
Appare a chi scrive che la chiarezza e la specificità, nonché la necessita, quanto al fatto di ricostruire l’apporto probatorio complessivo, e quindi fornirne una interpretazione critica avversa a quella fornita dal primo giudice, e quanto al diritto di vagliare gli approdi giurisprudenziali di merito e di legittimità onde pervenire alla critica motivata e documentata, con l’indicazione dei precedenti in termini, mal si concilino con la sinteticità richiesta dalla stessa disposizione: in buona sostanza, un atto di appello che debba con specificità e con chiarezza fornire al giudice del gravame gli elementi che la norma richiede ben difficilmente potrà risultare sintetico.
Volendo poi estendere il discorso al ricorso per Cassazione, sorge spontaneo chiedersi come la sinteticità possa convivere col requisito della autosufficienza del ricorso, che impone – all’interno stesso del ricorso – una mole di allegazioni, trascrizioni e citazioni del tutto incompatibili con la sinteticità auspicata dal legislatore cartabino.
Ma non finisce qui, perché in merito a questo ultimo aspetto è intervenuto il protocollo d’intesa tra Corte Suprema di Cassazione, la sua Procura Generale, l’Avvocatura Generale dello Stato e il Consiglio Nazionale Forense, siglato il 1 marzo 2023, ove si legge che il ricorso deve essere contenuto nelle 30 pagine con corpo 12, interlinea 1,5 e margini orizzontali e verticali di 2,5 cm, il che significa circa 400 parole a cartella che per 30 cartelle fanno 12.000 parole circa, ivi comprese le intestazioni, l’indicazione delle parti con tutti i riferimenti, la riproduzione del dispositivo della sentenza, la esposizione dei fatti e delle ragioni della decisione appellata, l’indice dei documenti e le citazioni e riproduzione degli atti e dei documenti ai fini della autosufficienza.
L’ultimo ricorso per Cassazione che ho redatto, su una questione molto semplice, che non richiedeva trascrizioni, articolato in cinque motivi redatti in estrema sintesi, ha richiesto quasi 7.000 parole, più della metà di quelle consentite.   
Tutto questo per dire che la riforma, che da una parte ha già sostanzialmente eliminato del tutto la residua oralità nella trattazione, in parte anche meritoriamente, eliminando udienze per lo scambio di cioccolatini tra i patroni delle parti, e verbali ove si attestava che le parti impugnavano e contestavano l’altrui, riportandosi al proprio (e vedi un po’), rischia di diventare una tagliola per lo stile redazionale, soprattutto se il tentativo di sinteticità che gli avvocati volessero esperire fosse interpretato da Curie poco illuminate come omissivo o incompleto o viceversa l’eloquio finalizzato alla chiarezza e alla specificità necessarie venisse letto come logorroica retorica.
Una riforma quindi, quella voluta dal Ministro Cartabia, che anche qui, come in buona parte di tutti gli interventi modificativi finisce non solo per aggravare, ma per rendere incerto, contraddittorio e privo di riferimenti certi il lavoro degli avvocati, costretti a destreggiarsi tra ossimori normativi poco compatibili con la necessità di giustizia, la certezza del diritto e l’efficienza della macchina giudiziaria cui codesta riforma pretendeva anelare.

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LIBERTA' DI SCIENZA

Ovunque si ascoltano i richiami all’art. 21 della Costituzione: artisti, giornalisti, politici, magistrati, cittadini comuni, rivendicano il loro sacrosanto diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. Per contro, quello stesso afflato libertario si scontra con chi invoca i limiti nei confronti di haters, apologhi di ideologie controverse, provocatori, anarchici. Spesso chi invoca l’art. 21 è pronto anche a invocare limiti all’art. 21, purché naturalmente siano quelli che vuole lui.
Se ciò causa confusione, almeno alimenta il dibattito.
Perché per un altro articolo della Costituzione invece non c’è la medesima attenzione.
L’art. 33 della Costituzione recita che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
È un precetto sottovalutato e spesso ritenuto di poco momento, invece, a saperlo leggere, è addirittura più importante e rivoluzionario dell’art. 21. Perché la libera manifestazione del pensiero concerne le opinioni, mentre nell’art. 33 entra in gioco la scienza, e la scienza, ci dicono tutti, non è un’opinione.
Ma allora che significa che la scienza è libera? Se non si dà opinione al pensiero scientifico, parlare di libertà non ha senso.
Ma i costituenti non erano degli sprovveduti: deve esserci una ragione per cui hanno dato dignità costituzionale alla libertà di scienza.
Libertà di scienza significa che non può e non deve esistere una scienza di Stato, non è ammissibile che lo Stato imponga ai cittadini un dover essere che poggi su basi scientifiche, perché anche la scienza vive e si sviluppa, progredisce, con la circolazione di idee diverse.
Basta pensare che nemmeno dieci anni prima, la scienza di Stato aveva appoggiato quella ignominia che sono state le leggi razziali.
Oggi, dopo tre anni in cui la Scienza è stata presentata come irretrattabile e inconfutabile punto di riferimento dell’azione politica, rischiando e forse riacquisendo addirittura quell’odioso connotato di scienza di Stato che nessuno poteva osare mettere in dubbio, a mente fredda, occorre ricominciare a ricondurre il contesto sociale, politico e giuridico al richiamo del costituente, che con l’art. 33 ha voluto scongiurare il rischio di deriva che comporta il riconoscimento di una scienza di Stato.
Naturalmente, il pensiero forte è ormai riservato ai soli giuristi, visto che la classe intellettuale si è facilmente allineata alla vulgata promossa dalla politica e soprattutto dalla maggioranza politica, mai così vicina all’unanimità, fateci caso.
E la forza del giurista nasce dalla Norma, l’art. 33 della Costituzione che ci ricorda, ancora oggi e ancor più oggi, che abdicare dalla libertà, anche in nome di una pretesa verità scientifica, non si può e non si deve.

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IL PROCEDIMENTO SEMPLIFICATO DI COGNIZIONE

La riforma Cartabia del processo civile ha abrogato il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c. e ha introdotto il processo semplificato di cognizione (artt. 281 decies e ss. c.p.c.).
La formulazione sembra stabilire che questa sia la forma necessaria di introduzione dei giudizi con fatti di causa non controversi, fondati su prova documentale, di pronta soluzione o che richiedono una istruzione non complessa.
La novità è anche che in siffatti casi, la domanda di procedimento semplificato può essere introdotta anche per le cause di competenza collegiale (ciò che era escluso dal vecchio 702 bis).
Allo stesso modo, davanti al giudice monocratico è sempre possibile tale modalità di introduzione del giudizio, avendo cura di allegare tutta la documentazione e formulare tutte le istanze istruttorie ritenute necessarie (come nel rito lavoro per capirci), lasciando al giudice di decidere l’eventuale prosecuzione nelle forme del rito semplificato ovvero il mutamento in rito ordinario.
Non si capisce cosa avvenga se una causa di competenza collegiale fosse introdotta col rito semplificato (assumendo l’attore che ne abbia le caratteristiche) e il giudice non la ritenesse tale: non mi sembra comunque vi sia spazio per provvedimenti diversi dal mutamento del rito, anche in questo caso.
La norma poi non descrive le caratteristiche delle fattispecie elencate, e quindi spetterà all’attore (in tal caso ricorrente) scegliere di promuovere l’azione nelle forme del procedimento semplificato, sempre ferma la facoltà del giudice di mutare il rito in ordinario allorché la pensi diversamente.
Il procedimento semplificato ricalca il vecchio 702 bis con importanti novità: 1) esiste la possibilità per le parti di chiedere un doppio termine di 20 + 10 giorni per il deposito di memorie integrative delle domande e dei mezzi istruttori richiesti (occorre però un giustificato motivo, e all’esito il giudice, ritengo, laddove le domande o l’istruzione per effetto delle integrazioni diventino più complesse potrà disporre il mutamento del rito in ordinario); 2) la decisione avviene con sentenza a seguito di discussione orale ed è soggetta ad appello nelle forme ordinarie (e non in quelle di cui al vecchio art. 702 quater c.p.c.).
In buona sostanza, da oggi agli avvocati potrebbe convenire utilizzare sempre tale rito semplificato di cognizione, invece dell’arzigogolato, assurdo e bizantino rito ordinario di cui alla nuova sezione I, capo I titolo I del c.p.c. (artt. 163 e ss.).

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ATTI OSTILI, RECLUTAMENTO E BRIGATE INTERNAZIONALI

Una nota del Consolato italiano dell’Ucraina afferma che le porte del Consolato sono aperte “agli aspiranti legionari” per unirsi ai ranghi della legione straniera in difesa della nazione Ucraina.

Tale reclutamento, di cui si dà ampio risalto sui quotidiani nazionali con richiamo alla Brigata Internazionale per la Repubblica di Spagna, spesso con riferimenti romantici e letterari, starebbe avvenendo nel nostro Paese e interesserebbe anche cittadini italiani.

L’art. 244 c.p.  dispone che “chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo”.

Appare evidente come il reclutamento di cui sopra possa rientrare nella fattispecie oggetto della norma incriminatrice, così come il riferimento al compimento di altri atti ostili possa raggruppare talune delle condotte che trovano ampia eco nella stampa nazionale e internazionale.

Poiché non consta che per ciascuna di esse sia intervenuta  autorizzazione, che non può che essere formale, cioè resa con uno dei suoi provvedimenti tipici, del Governo, ed evidentemente preventivo alla condotta, alla luce della obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla nostra Costituzione, chi ponga in essere le condotte citate potrebbe essere passibile di indagine giudiziaria penale, con il rischio di sanzioni detentive molto gravi.

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LA CASSAZIONE SI PRONUNCIA SULLA RIFORMA CARTABIA E PARE SALVARE LA NON RETROATTIVITÀ DELLA “IMPROCEDIBILITÀ”

Con l’ordinanza resa dalla Cassazione Penale, Sez. VII, Ordinanza, 28 novembre 2021 (ud. 19 novembre 2021), n. 43883, Presidente Vessicchelli, Relatore Miccoli, il supremo collegio si pronuncia sugli aspetti problematici della non retroattività della riforma Cartabia ai reati precedenti al 01/01/2020.

Seppure il ricorso venga dichiarato inammissibile e quindi l’invocata “improcedibilità” da parte del ricorrente non rilevante ai fini del giudizio, non di meno la Cassazione si occupa della questione, anche sotto l’aspetto della sua tenuta costituzionale.

Tre sono le ragioni che per la Corte supportano la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale proposta.

  1. Seppure gli aspetti sostanziali scaturenti dalla norma processuale debbano essere considerati nell’ottica del rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., occorre verificare se tali implicazioni sostanziali siano coerenti con la funziona assegnata all’istituto di cui si tratta e con gli interessi protetti, facendo riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 72/2008 sulla non sottoposizione a scrutinio di maggiore o minore favore della legge sopravvenuta nei casi di processi già pendenti in appello o in cassazione;

  2. Inoltre, il regime transitorio può ben correlarsi alla necessità di introdurre gradualmente nel sistema processuale un istituto così innovativo, sicché ha una sua ragionevolezza la previsione di un periodo finalizzato a consentire un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari;

  3. Infine, essa riforma si affaccia in un sistema ove è stata introdotta, con la L. 3/2019, la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, di tal ché essa si applica a situazioni, quelle successive al 01/01/2020, che presentano peculiarità che non consentono di parlare di ingiustificata disparità di trattamento.

Dunque, verifica di corrispondenti interessi (evidentemente di rango costituzionale) protetti dalla norma; organizzazione degli uffici giudiziari (sic) e insussistenza della disparità di trattamento con chi (ante L.3/2019) godeva della prescrizione e chi ne subisce invece la sospensione dopo la sentenza di primo grado (ma allora quid iuris per i fatti commessi tra la L. 3/2019 e il 01/01/2020?).

Sicuri che non spetti alla Consulta pronunciarsi su ciò?

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LA PROPOSTA REFERENDARIA SULL’ART. 579 C.P. - OMICIDIO DEL CONSENZIENTE.

E’ in atto la raccolta di firme per un quesito referendario attinente l’art. 579 c.p., rubricato Omicidio del consenziente.

Detta disposizione punisce con la reclusione da sei a quindici anni chi cagiona la morte di un uomo col consenso di lui, al primo comma. Il terzo comma stabilisce che si applicano le disposizioni per l’omicidio (art. 575 c.p.) nel caso in cui il fatto è commesso nei confronti di minorenni, infermi di mente, di chi si trovi in casi di deficienza psichica, etc., ovvero laddove il consenso sia carpito con minaccia, violenza, suggestione o inganno.

Il quesito, con tecnica manipolativa, lega il primo comma al terzo, lasciando la sola punibilità, con le pene previste per l’omicidio, per i casi di cui al detto terzo comma.

In tesi, esso vorrebbe consentire l’omicidio del consenziente, con ottica ai casi di malattia degenerativa grave e incurabile, utilizzando lo slogan eutanasia legale.

Il quesito si presta però a diverse obiezioni e appunti.

Prima di tutto, occorre verificare se la vita sia diritto disponibile.

Infatti, il consenso, ai sensi dell’art. 50 c.p., scrimina solo se è dato dalla persona che può validamente disporne (del diritto leso).

Peraltro, l’art. 5 del codice civile consente gli atti di disposizione del proprio corpo solamente laddove non cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, e non siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, ma un po’ ovunque nel nostro ordinamento risulta una indisponibilità del proprio corpo e della propria vita.

Ne discende che se sono vietate le lesioni con diminuzione permanente dell’integrità fisica, non vi è spazio per ritenere legittima la disposizione della propria vita.

Ne deriva che, de iure condito, la abrogazione proposta, non essendo applicabile la scriminante di cui all’art. 50 c.p., per non essere la vita un diritto disponibile, comporterebbe solamente che l’omicidio del consenziente, in luogo di avere una pena ridotta (primo comma dell’art. 579 c.p.) sarebbe punibile anch’essa con le pene di cui all’art. 575 c.p., e quindi paradossalmente e contro le intenzioni degli stessi promotori, in maniera più grave.

Né può pensarsi che la espressa previsione di cui all’art. 579 c.p. modificato, con la punibilità dei soli casi di cui al terzo comma, possa costituire una scriminante “implicita”, poiché l’omicidio resta punito dall’art. 575 c.p. e in assenza di una esplicita scriminante, detta disposizione resta valida e deve applicarsi.

In conclusione, considerando la vita quale diritto non disponibile, l’unico effetto della abrogazione referendaria sarebbe l’aggravamento della pena edittale per l’omicidio del consenziente.

Consideriamo l’ipotesi, per mero esercizio intellettuale, che la vita sia diritto disponibile.

A questo punto varrebbe la scriminante dell’art. 50 c.p..

La prima conseguenza è che però detta scriminante non si applicherebbe solo ai casi che cita il comitato promotore (malattie gravi, degenerative, inguaribili, etc.) ma si applicherebbe a tutti i casi di consenso, anche al di fuori di tali casistiche.

Si aprirebbe così la possibilità di considerare scriminati omicidi di persone che per ragioni non derivanti dai casi di cui a quel che resta dell’art, 579 c.p. abbiano validamente e consapevolmente espresso il loro consenso a essere uccisi.

Detta così sembra ipotesi marginale. Ma l’ordinamento deve soprattutto occuparsi di questo, delle ipotesi, generali e astratte, anche se marginali. Si pensi allora a particolari credenze religiose ove in adempimento di una creduta volontà superiore, i credenti si pongano in tale sottomissione da sacrificare la propria vita (e non parliamo necessariamente di culti animistici o simili, pensiamo alla religione cristiana e al sacrificio di Isacco - Alcuni studiosi fanno rilevare che Isacco fu ubbidiente e rispettoso verso l'anziano padre. Infatti, mentre il racconto biblico asserisce che Abramo era vecchio avendo superato di gran lunga i 100 anni, Isacco non sembra essere stato un bambino, bensì un giovane vigoroso che, se non fosse stato consenziente, poteva opporsi con la forza al padre. Lo storico Giuseppe Flavio, infatti, riportando il pensiero della tradizione ebraica in Antichità giudaiche, afferma che Isacco aveva 25 anni all'epoca del suo sacrificio), oppure pensiamo a certe relazioni interpersonali d’amore o d’amicizia, o in associazioni mistiche o d’altro tipo, militari, per esempio, che conducono a gesti estremi, ma le fattispecie sono tantissime.

In tutti questi casi andrebbe indagata la spontaneità, la validità e la perdurante sussistenza del consenso, con questioni giuridiche ed ermeneutiche di difficile prevedibilità.

Ciò che qui conta è che il quesito andrebbe inevitabilmente oltre l’intenzione del comitato promotore, ciò che ne comporterebbe dubbi di ammissibilità che spetterà alla Consulta esaminare.

Quel che preme al presente intervento è sollecitare un approfondimento, che la narrazione referendaria e pro-eutanasia stanno (consapevolmente o meno) celando ai pur molti, anche esponenti politici di primo piano e della società civile, che stanno apponendo la loro firma, forse al buio.

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LA RIFORMA CARTABIA: LA NUOVA IMPROCEDIBILITÀ PENALE E I REATI ANTE RIFORMA

La proposta del ministro della giustizia introduce questo nuovo istituto, il cui funzionamento può riassumersi così: il processo e l’azione penale diventano improcedibili se il giudizio di appello dura oltre un certo periodo (due o tre anni) o il giudizio di Cassazione oltre un altro periodo (uno o due anni), con possibile aumento di un anno in appello e sei mesi in cassazione per i reati più gravi o i dibattimenti più complessi.
Nella proposta emendativa per calcolare tale durata il dies a quo è individuato nella data di proposizione del gravame.
Inoltre, tale istituto si applicherebbe ai soli reati commessi dopo il 01/01/2020.
Ci interessa se la norma de qua possa trovare applicazione ai reati antecedenti.
Certa parte sostiene che trattandosi di norma processuale essa non è soggetta al regime retroattivo delle leggi più favorevoli all’imputato.
Ma è questa una norma “processuale”?
Innanzitutto occorre considerare che la sua introduzione deriva dalla necessità di assicurare la “ragionevole durata del processo”, in opposizione al c.d. “fine processo mai” che si sostiene essere di fatto stato introdotto con la riforma Bonafede.
Se è così, la ragionevole durata del processo non può che ritenersi principio sostanziale, peraltro coperto costituzionalmente (art. 111, comma 2, Cost.).
Ora, precisato questo, sarebbe difficile capire perché l’imputato di un reato commesso il 31/12/2019 non avrebbe diritto a un appello che durasse due anni, come l’imputato di reato commesso il 02/01/2020, considerato peraltro che per entrambi, molto probabilmente al momento di entrata in vigore della riforma non sarà finito nemmeno il primo grado e quindi entrambi proporrebbero gravame dopo la entrata in vigore della riforma. Solo che il secondo godrebbe di una tagliola che il primo non avrebbe. (In tal senso peraltro, come norma processuale dovrebbe valere il principio tempus regit actum, e quindi non la data di commissione del reato, ma la data di proposizione del gravame dovrebbe regolare la applicabilità della riforma al caso specifico).
Ma lo stesso ragionamento varrebbe per chi sia già in attesa del processo di appello avendo proposto impugnazione alla sentenza sfavorevole di primo grado: perché per costui il processo di appello potrebbe legittimamente durare di più? Non varrebbe per lui lo stesso principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.? Perché dovrebbe sopportare un processo più lungo?
Si potrebbe obiettare che costoro godono della prescrizione, non applicabile dopo il primo grado ai reati post riforma Bonafede. Ma così facendo si cadrebbe nell’equivoco, fatale ai sostenitori della improcedibilità come istituto “processuale”, di creare una commistione compensativa tra codesto istituto e quello della prescrizione, pacificamente di natura sostanziale. La tesi è pertanto insostenibile, ovvero finisce per confermare la improcedibilità come istituto sostanziale.
Una lettura della improcedibilità come istituto processuale non applicabile ai fatti ante 01/01/2020 cozzerebbe per costoro quindi sia contro il principio di ragionevole durata del processo, sia contro il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non sussistendo nessun criterio ragionevole per discriminare tra gli imputati ante e post 01/01/2020.
Di fronte a questo, il giudice, in relazione alla disposizione che ne prevede la applicazione solo ai reati post 01/01/2020 dovrà rimettere necessariamente la questione di legittimità costituzionale di quest’ultima, per contrasto con gli artt.. 3 e 111 Cost..

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BREVI NOTE A MARGINE SULLA “IMPROCEDIBILITÀ” DEL PROCESSO PENALE DELLA RIFORMA CARTABIA

Per quel che si apprende da notizie di stampa (il testo non è ancora noto) nel nuovo processo penale firmato dal Ministro della Giustizia e approvato all'unanimità dal Consiglio dei Ministri, il grado di appello dovrà durare non più di due anni e il giudizio di Cassazione non più di un anno, pena la “improcedibilità” del processo, cioè l’annullamento dell’intero procedimento.
Il primo problema che si pone è il dies a quo: cioè da quando partono i due anni per l’appello e l’anno per la cassazione?
Perché se partono dalla data del deposito dell’atto d’appello, in Fori come Roma, Napoli e simili sarà assolutamente impossibile che tra detta data e la decisione di appello passino meno di due anni.
Se invece partono dalla data di fissazione della prima udienza dell’appello, quid iuris tra la data del deposito dell’appello e quella della fissazione della prima udienza? Di fatto la riforma sarebbe inutile, posto che possono passare anni tra la prima e la seconda, e in tal caso non funzionerebbe la mannaia della improcedibilità. Fine processo mai lo stesso, quindi.
Trattandosi poi di norma più favorevole all’imputato essa troverebbe applicazione anche nei processi in corso, nessuno dei quali sarà mai deciso in due anni (anzi molti sono già oggi ben oltre tale limite). Di fatto quindi ci troviamo davanti a una amnistia.
La vecchia prescrizione stabiliva tempi diversi a seconda del reato (pena edittale massima più un quarto, ovvero la metà per recidiva, etc.). Qui si prevede lo stesso termine di due anni (e di un anno in Cassazione) per qualsiasi tipo di reato. Così messa, la riforma puzza anche di illegittimità costituzionale.
Se poi c’è condanna in primo grado, e quindi l’appellante è l’imputato, in caso di improcedibilità muore tutto il processo, evidentemente, ivi comprese le statuizioni civili, che con la vecchia prescrizione invece non decadevano.
Stessi ragionamenti valgono per il giudizio di Cassazione.

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IL GIUDICE ACCOGLIE L'OPPOSIZIONE ALL'ESECUZIONE PER INEFFICACIA PIGNORAMENTO PRIMA CASA ESEGUITO TRA IL 25/10 E IL 25/12/2020

Il Giudice dell'Esecuzione di Roma, con ordinanza del 03/06/2021, ha accolto, dichiarando l'inefficacia del pignoramento e l'estinzione della procedura esecutiva immobiliare, l'opposizione così proposta.

L’art. 4 del D.L. n. 137/2020 (convertito nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 24/12/2020), dispone quanto segue:

Art. 4.

(Sospensione delle procedure esecutive immobiliari nella prima casa)

1. All'articolo 54-ter, comma 1, del decreto-legge 17  marzo  2020,

n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020,  n.

27, le parole "per la durata di sei mesi a decorrere  dalla  data  di

entrata in vigore della legge di conversione  del  presente  decreto"

sono sostituite  dalle  seguenti  "fino  al  31  dicembre  2020".  E'

inefficace ogni procedura esecutiva per il pignoramento  immobiliare,

di cui all'articolo 555 del codice di procedura civile, che abbia  ad

oggetto l'abitazione  principale  del  debitore,  effettuata  dal  25

ottobre  2020  alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge   di

conversione del presente decreto.

La norma in scrutinio determina e dichiara l’inefficacia del pignoramento immobiliare che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore, intervenuto tra il 25 ottobre 2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione che, come abbiamo sopra visto, è stata pubblicata il 24/12/2020 ed è entrata in vigore il 25/12/2020.

Il pignoramento per cui è giudizio è stato eseguito il 30/10/2020, sull’immobile che costituisce l’abitazione principale dei ricorrenti, che ivi hanno la propria residenza, e pertanto ricade nell’ambito di applicazione della richiamata disposizione.

Relativamente agli effetti della sanzione di “inefficacia” comminata per detto tipo di atti, deve ricordarsi che la disposizione in parola è stata aggiunta, con il Decreto Legge dell’ottobre 2020 a quella che già prevedeva la sospensione delle procedure esecutive immobiliari sulla c.d. prima casa, introdotta col D.L. n. 18/2020 e successivamente prorogata al 31/12/2020 dallo stesso D.L. 137/2020 e ancora prorogata sino al 30/06/2021 dal D.L. n. 183/2020.

Ciò comporta che il significato da attribuire alla inefficacia deve necessariamente andare al di là della mera invalidità di eventuali atti compiuti medio tempore nelle procedure immobiliari de quibus, per i quali vale e continua a valere la sospensione già prevista nei provvedimenti citati.

E’ chiaro che il Governo prima, e il Parlamento poi in sede di conversione, hanno ritenuto che per il periodo identificato dalla disposizione in parola occorresse prevedere un ulteriore e più incisivo strumento di alleggerimento delle posizioni debitorie, individuato appunto nella “inefficacia della procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare”.

La disposizione, chiarissima, ha pertanto sancito un arco temporale all’interno del quale non si poteva dare corso a iniziative pignoratizie immobiliari sulla prima casa.

La dottrina e parte della giurisprudenza hanno cercato e stanno cercando di dare una interpretazione della norma, letta come costituzionalmente dubbia in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione in merito alla limitata efficacia temporale e alla paralisi dell’azione esecutiva del creditore in quel lasso di tempo.

Hanno così voluto interpretare la portata della disposizione riducendola alla inefficacia degli atti “successivi” al pignoramento, e non a quello costitutivo del vincolo e iniziale della procedura esecutiva.

Parlano al riguardo, detta dottrina e la giurisprudenza di merito che se ne è occupata, di interpretazione costituzionalmente orientata.

La tesi, ad avviso dei ricorrenti, è infondata, per le seguenti ragioni.

La esistenza già dal marzo 2020 della sospensione delle procedure esecutive immobiliari de quibus, renderebbe la disposizione in parola così come si vuole interpretarla dalla citata dottrina e giurisprudenza, del tutto inutile e conseguentemente incomprensibile l’intervento del Governo prima e del Parlamento dopo.

Valorizzare la criticata interpretazione significa sancire che il Governo nell’immediatezza e il Parlamento, dopo la discussione e la presentazione degli emendamenti, in sede di conversione, abbiano consapevolmente dato vita a una norma inutile, doppione di una già esistente e senza nessun effetto, autonomo e ulteriore.

Nell’ermeneutica giuridica, la disposizione deve essere interpretata affinché abbia un senso, in armonia con l’ordinamento già vigente: in una legislazione che già prevede una sospensione, attribuire a una nuova norma lo stesso significato già presente (e peraltro prorogato in altra parte dello stesso art. 4 cit.) significa di fatto abrogare la disposizione.

Ciò non è consentito all’interprete.

Di fronte a conseguenze “scomode” (o non condivise) il giudice non può ritenere in via interpretativa di non applicare la disposizione da cui traggono origine, mutandone il significato, anzi affievolendolo a mera e inutile ripetizione di altre disposizioni già vigenti.

Né può la interpretazione “costituzionalmente orientata” arrivare, come vuole fare nella fattispecie, a togliere ogni significato alla disposizione legislativa.

Infatti, in tal caso il giudice si arrogherebbe il diritto di abrogare in via interpretativa ciò che a suo avviso non è conforme alla Costituzione.

Ma il sistema costituzionale prevede che ciò non compete al giudice del merito, quanto solo alla Corte Costituzionale, formalmente investita della questione.

La lettura “costituzionalmente orientata” può darsi solo laddove esista una interpretazione alternativa della norma dubbia, che sia conforme alla Costituzione, rispetto a un’altra ritenuta non conforme, ma non può spingersi a rendere del tutto priva di efficacia, leggendola come mera ripetizione di norma già esistente e appiattendola su di essa, la norma di cui si dubita.

Tale procedimento abrogherebbe la norma, ritenuta non conforme a Costituzione, senza il vaglio necessario della Consulta.

La parola della disposizione è chiara: i pignoramenti eseguiti nell’arco temporale descritto sono inefficaci e tale inefficacia significa che essi non possono costituire validi vincoli sugli immobili che ne sono oggetto, né da essi può incardinarsi una procedura esecutiva immobiliare.

Se il giudice ritiene non manifestamente infondata la sua legittimità costituzionale, sollevi la questione, ma non può espungerla, con una interpretazione di comodo, e priva di senso nell’ordinamento, essendo già prevista la sospensione delle procedure esecutive immobiliari, dal medesimo ordinamento.

Per quello che attiene al presente giudizio, a chiosa dei commenti della dottrina e della giurisprudenza di merito sulla pretesa non conformità della disposizione richiamata agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e salva ogni ulteriore deduzione allorché codesto Tribunale vorrà eventualmente discutere e sollevare la questione, conta osservare quanto segue.

L’arco temporale limitato della sanzione di inefficacia non è incompatibile con la Costituzione.

La scelta del legislatore di rendere inefficaci e quindi impedire che per circa sessanta giorni si procedesse ad atti esecutivi immobiliari quali quelli sanzionati, può derivare da molteplici ragioni, non ultima quella di non aggravare gli Uffici giudiziari di ulteriori procedure esecutive, e del conseguente necessario lavoro, quando essi sono già costretti a operare in maniera precaria (smartworking, isolamenti domiciliari e/o malattia degli addetti, etc.).

Comunque non può l’interprete sindacare una tale scelta del legislatore.

Né esiste una disparità di trattamento con coloro che abbiano “passato” il pignoramento prima del provvedimento in parola: infatti in un regime di sospensione vigente sin da marzo 2020, anche chi ha già visto la sua procedura iscritta a Ruolo subisce la paralisi delle attività successive, e non ottiene alcun vantaggio.

Né, in relazione all’art. 24 della Costituzione, subisce un trattamento costituzionalmente illegittimo il creditore che non può vincolare l’immobile del suo debitore, pignorandolo nell’arco temporale in parola.

Infatti, egli può sempre, non essendo tale attività minimamente toccata dalla norma in scrutinio, iscrivere ipoteca giudiziale sull’immobile, garantendosi la sua garanzia a tutela del credito.

Inoltre, la limitata portata temporale dell’inefficacia non pregiudica il suo diritto di espropriare i beni del debitore.

Detti cenni naturalmente servono, nei limiti dell’attuale trattazione, a inquadrare giuridicamente la questione e naturalmente meritano approfondimento nelle sedi deputate, avanti codesto Tribunale allorché esso dovrà, se ritenesse dubbia la norma, vagliare la non manifesta infondatezza della questione afferente la sua legittimità costituzionale, e successivamente, davanti alla Consulta nel merito di tale questione.

Allo stato, la lettera della norma impone la sospensione della procedura esecutiva anche oltre il periodo di vigenza ed eventuale proroga della sospensione già in essere (ultimamente prorogata ai sensi del D.L. 183/2020), poiché deve dichiararsi inefficace il pignoramento eseguito il 30/10/2020 nei confronti degli odierni opponenti, e invalida la procedura esecutiva iscritta in esito a esso in ragione del disposto dell’art. 4, D.L. 137/2020, convertito nella L. 176/2020.

Quanto sopra premesso e considerato, il Sig. ................. e la Sig.ra .........................., come in atti domiciliati, rappresentati e difesi, rassegna le seguenti, chiedono l’accoglimento delle seguenti

CONCLUSIONI

Voglia l’Ill.mo Tribunale di Roma, nella persona e in funzione di Giudice dell’Esecuzione, contrariis reiectis:

  1. in via cautelare e urgente, sospendere la procedura esecutiva anche oltre il periodo di vigenza ed eventuale successiva proroga della sospensione già in essere (ultimamente prorogata ai sensi del D.L. 183/2020), nonché adottare ogni altro provvedimento ritenuto indilazionabile, per le ragioni di cui in narrativa;

  2. in rito, fissare il termine per l’introduzione del giudizio di merito a cura della parte interessata, ex art. 616 c.p.c.;

  3. nel merito, dichiarare la inefficacia del pignoramento notificato in data 30/10/2020 e invalida la procedura esecutiva incardinata in esito a esso, per le ragioni di cui in narrativa, disponendo la liberazione degli immobili pignorati e dichiarando l’estinzione della procedura esecutiva.

  4. con vittoria di spese di lite della fase cautelare e dell’eventuale fase di merito.

Si dichiara che il valore della causa è pari a € .........................

Si deposita in copia:

  1. atto di pignoramento passivo;

  2. certificati di residenza degli opponenti.

Con riserva di variare e integrare come per legge.


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PRESCRIZIONE PENALE E COVID-19

"La causa di sospensione è di applicazione generale, proporzionata e di durata temporanea, e la deroga al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. risulta giustificata dall’esigenza di tutelare il bene primario della salute, conseguente ad un fenomeno pandemico eccezionale e temporaneo, dovendosi realizzare un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali, nessuno dei quali è assoluto e inderogabile".

Questo il testo e il principio di diritto resi dalla Cassazione, Terza sezione penale, con la sentenza n. 21367 del 2-17 luglio 2020.

Dato che siamo tra giuristi, mi evito di riassumere i termini della questione, arcinoti agli addetti ai lavori.

Petizione di principio e tautologia: la sospensione de qua non è riconducibile alla disciplina generale di cui all'art. 159 c.p..

La Cassazione perde tempo a dire l'ovvio: se vi fosse compresa, non sarebbe sorta l'esigenza di introdurre una nuova causa di sospensione.

Inoltre, dice due inesattezze: 1) l'art. 159 c.p. richiama espressamente "ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo...è imposta da una particolare disposizione di legge", e 2) essendo una causa di sospensione della prescrizione, che è istituto di diritto penale sostanziale, essa è soggetta alla stessa regolamentazione, la cui irretroattività NON dipende dall'art. 159, bensì dall'art. 25 della Costituzione.

Fin qui per dimostrare con due parole come i presupposti della pronuncia hanno fragilissime fondamenta.

Il grave viene dopo.

Nessun diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto è inderogabile, afferma il supremo collegio, e quindi, il diritto alla libertà personale, perché di quello stiamo parlando, può cedere di fronte a esigenze quali quella di tutelare il bene primario della vita e della salute.

Domanda: come può la sospensione retroattiva della prescrizione concorrere a tutelare il "bene della vita e della salute"?

Veramente la Cassazione vuole farci credere che il diritto di libertà personale deve cedere dinanzi alla possibilità per i magistrati di stare a casa, non trattare processi e quindi poter amministrare la giustizia penale per due mesi in più, senza correre il rischio che il reato si prescriva?

E che tutto ciò serva a tutelare la vita e la salute? Dei magistrati, forse.

In realtà l'intervento della Cassazione, che non ha ritenuto nemmeno investire della questione le Sezioni Unite, rappresenta un gravissimo e palesemente incostituzionale vulnus al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole.

Aprire uno spiraglio, ledere anche minimamente questo principio, apre la strada a leggi speciali che, in nome di malintesi diritti costituzionali concorrenti, gettano al vento le fondamenta dello stato di diritto.

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CONVERSIONE DEL DL N. 28/20 E FINE DELL’EMERGENZA EPIDEMIOLOGICA NELLA GIUSTIZIA.

La legge di conversione, approvata definitivamente alla Camera e in attesa di pubblicazione, del D.L. n. 28/20, stabilisce che all’articolo 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, sono apportate le seguenti modificazioni: … b-bis) al comma 6, primo periodo, le parole: « 31 luglio 2020 » sono sostituite dalle seguenti: « 30 giugno 2020 ».
Il comma 6 in questione è quello che attribuisce ai capi degli uffici giudiziari il potere di adottare misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico sanitarie fornite dal Ministero della Salute.
Esse si sostanziano in quelle poi descritte al successivo comma 7, e in particolare: a) la limitazione dell’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, garantendo comunque l’accesso alle persone che debbono svolgervi attività urgenti; b) la limitazione, sentito il dirigente amministrativo, dell’orario di apertura al pubblico degli uffici anche in deroga a quanto disposto dall’articolo 162 della legge 23 ottobre 1960, n. 1196 ovvero, in via residuale e solo per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico; c) la regolamentazione dell’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, nonché l’adozione di ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento; d) l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze; e) la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’articolo 472, comma 3, del codice di procedura penale, di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche; f) la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione, mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale; g) la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 31 luglio 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3; h) lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice. h-bis) lo svolgimento dell’attività degli ausiliari del giudice con collegamenti da remoto tali da salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti.
Ne discende che, con la modifica della data di cui al comma 6, da 31 luglio a 30 giugno, tutti questi poteri e attribuzioni CESSANO al 30 giugno 2020.
Dal 01 luglio tutte le misure organizzative, i protocolli per le udienze, le linee guida, le udienze da remoto e telematiche a trattazione scritta, le udienze a porte chiuse, la limitazione agli accessi negli uffici e degli orari di apertura divengono illegali, poiché viene meno il potere di chi le ha poste in essere ovvero può disporle (il giudice per le udienze con trattazione scritta, per esempio, del tutto espunte dall’ordinamento).

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NOTE DI TRATTAZIONE SCRITTA MATERIA LOCATIZIA ED ECCEZIONE DI TARDIVITÀ NELLA COSTITUZIONE

TRIBUNALE CIVILE DI ROMA

R.G. XXXX/XXXX

NOTE DI TRATTAZIONE SCRITTA

Per Xxxxxxxxxxxx Xxxxxxx, con l’Avv. Libero Petrucci e l’Avv. Marco Petrucci – ricorrente opponente;

c/

yyyyyyyyy, con l’Avv. yyyyyyyyyy – resistente opposta.

**** *** ****

I sottoscritti avvocati espongono quanto segue.

Visto il decreto del giorno 09/05/2020, pubblicato il successivo giorno 12/05/2020, con il quale era adottata per il presente procedimento la forma della trattazione scritta ex art. 83, comma 7, lett. h) del DL n. 18/2020, come convertito nella L n. 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020;

considerato che la parte resistente si è costituita in giudizio durante il periodo di sospensione (08/05/2020), nel quale veniva a scadere il termine a ritroso di dieci giorni prima dell’udienza, come fissato dall’art. 416 c.p.c. e ricordato nel decreto di fissazione di udienza del 26/02/2020;

considerato che tale costituzione deve pertanto ritenersi tardiva;

rilevato che, a norma dell’art. 83, comma 2, D.L. 18/2020 “quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il rispetto”;

considerato che il provvedimento del 9-12/05/2020 in effetti assegna, all’uopo, nuovo termine di dieci giorni prima dell’udienza di “trattazione scritta” per la costituzione del convenuto in aderenza alla disposizione citata;

considerato che la giurisprudenza di merito ha avuto modo di occuparsi della questione (Tribunale di Bologna, sentenza 6 maggio 2020), chiarendo che il difensore di una parte, depositando comunque l’atto durante il periodo di sospensione, pur in presenza della possibilità di usufruire in futuro del nuovo termine previsto dalla normativa emergenziale, ha rinunciato a valersene, esaurendo il proprio potere defensionale;

ritenuto pertanto che nella fattispecie, la difesa della opposta ha voluto procedere ugualmente alla costituzione pur sapendo che essa sarebbe stata tardiva (computandosi il termine a ritroso scadente nel periodo di sospensione fino all’inizio di detto periodo, sicché la scadenza per la costituzione veniva a cadere il giorno 08/03/2020, e la costituzione è avvenuta solo il giorno 08/05/2020);

considerato che il termine assegnato dal Giudice per la costituzione non può pertanto essere utilmente utilizzato da controparte, avendo esaurito, nei termini sopra descritti, il proprio jus postulandi, né il nuovo termine può essere interpretato come “rimessione in termini”, non essendo la decadenza non imputabile alla parte, che anzi le ha dato, per quanto sopra scritto, volontariamente corso;

ritenuto pertanto che la memoria depositata in data 12/06/2020 da controparte non può valere come nuova costituzione (della quale in effetti nemmeno controparte dichiara assumerne il nomen iuris, né vi allega nuovamente i documenti depositati con la costituzione);

ritenuto infine che per questa ragione deve dichiararsi inammissibile e deve essere stralciata tutta la produzione documentale allegata da parte opposta, nonché ogni domanda nuova ed eccezione non rilevabile d’ufficio;

Omissis


rilevato che, sotto altro profilo, la forma della trattazione scritta di cui alla lett. h), del comma 7, del citato art. 83 DL n. 18/2020, e come riportato dallo stesso Giudice nel citato provvedimento del 09-12/05/2020, è applicabile solo nei procedimenti che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti;

considerato che il procedimento de quo verte in materia locatizia e pertanto a esso si applica, in forza del richiamo contenuto nell’art. 447 bis c.p.c., l’art. 420 c.p.c. che prevede la presenza delle parti personalmente in udienza, tanto che la loro assenza senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile dal giudice al fine del decidere, e che invero lo stesso provvedimento di fissazione d’udienza del 26/02/2020 disponeva la comparizione personale delle parti (o dei procuratori speciali);

ritenuto che pertanto la “trattazione scritta” non appare applicabile al procedimento di cui in epigrafe;

ritenuto altresì che l’invito contenuto nel medesimo provvedimento rivolto ai procuratori delle parti affinché rinuncino “espressamente, con apposita dichiarazione scritta resa nelle note stesse, alla pubblica udienza” non appare accoglibile a questo difensore, posto che non rinviene né nel codice di rito, né tantomeno nel citato DL n.18/2020, come convertito nella legge n. 27/2020 e successivamente modificato, alcun potere dispositivo in tal senso in capo al difensore;

considerato che una tale rinunzia potrebbe essere considerata nel proseguo del procedimento ed eventualmente nei gradi successivi nullità del procedimento, e costituire motivo di gravame in sede di legittimità in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.;

considerato che ciò sarebbe estrinsecazione di una facoltà non consentita per legge ai sottoscritti difensori e che potrebbe cagionare una nullità in grado di pregiudicare la correttezza del procedimento e travolgere quindi ogni suo esito;

ritenuto quindi di non poter rinunziare all’udienza di discussione;

considerato altresì che l’udienza di discussione non può ritenersi pienamente sostituita dallo scambio di note scritte “contenenti le sole istanze e conclusioni” addirittura “tramite rinvio a quelle già formulate in atti, già depositate”, venendo meno il profilo argomentativo e persuasivo proprio della discussione orale, nonché un effettivo contraddittorio sulle istanze e conclusioni della controparte, non conoscibili in tempo reale, e con ciò potendo porsi in contrasto l’art. 83, comma 7, lett. h) del DL n. 18/2020, come convertito nella L. n. 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020 con l’art. 24 della Costituzione sotto il profilo del diritto di difesa e con l’art. 111 della Costituzione sotto il profilo della garanzia del contraddittorio;

atteso che infatti anche controparte si dilunga nelle sue note scritte per sei pagine, riproponendo e approfondendo le proprie difese;

ritenuto comunque di svolgere istanze e conclusioni per la “trattazione scritta” nel rispetto del provvedimento del 09-12/05/2020 al fine di non essere considerati assenti all’udienza così convocata, di cui all’avviso contenuto nel provvedimento medesimo;

quanto sopra premesso e ritenuto, i sottoscritti avvocati impugnano e contestano quanto dedotto dalla parte resistente nella propria comparsa di costituzione e risposta e nelle note di trattazione scritta, poiché infondato in fatto e diritto, chiedendo l’integrale rigetto delle avverse conclusioni, riservata ogni più articolata controdeduzione alle medesime, e

CHIEDONO

che l’On. Tribunale adito voglia così provvedere:

In rito

  1. Dichiarare inammissibili e stralciare le produzioni documentali offerte da controparte poiché tardive, nonché tutte le domande, istanze istruttorie e le eccezioni non rilevabili d’Ufficio

  2. Revocare il provvedimento di “trattazione scritta” del 09-12/05/2020, fissando l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.;

Nel merito

  1. Rigettare la richiesta di provvisoria esecuzione anche parziale del decreto ingiuntivo opposto, essendo l’opposizione fondata su prova scritta e di pronta soluzione;

  2. Accogliere l’opposizione e le conclusioni svolte nell’atto introduttivo.

Si deposita la scansione del ricorso notificato, conforma all’originale in possesso dei sottoscritti difensori.

Salvis Juribus

Avv. Libero Petrucci                                                                   Avv. Marco Petrucci

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L’EMENDAMENTO TRUFFA DI FDI SULLA “RIAPERTURA” DEI TRIBUNALI.


L’emendamento si compone di un solo articolo che sostituisce all’interno dell’art. 83, DL n. 18/20, ora L. n. 27/2020, le parole "31 luglio 2020" con le parole "30 giugno 2020".

E butta via il bambino con l’acqua sporca.

Esso infatti, non entrando nel merito delle soluzioni alla emergenza pandemica, sia con riferimento al lavoro amministrativo, sia al lavoro di udienza, si limita a limitare al 30/06/2020 ogni potere attribuito ai capi degli uffici giudiziari per la gestione della crisi e a ogni altra alternativa prevista dalla L. 27/20 al lavoro in presenza.

Se da un lato ciò è bene, visti gli abusi cui abbiamo assistito, dall’altro cancella norme intelligenti.

Per esempio: non sarà più possibile la trattazione scritta, nemmeno in quelle udienze dove l’avvocatura da anni ritiene del tutto superflua la udienza “in presenza”: si pensi a molte prime comparizioni, alle udienze di precisazione delle conclusioni, alle assegnazioni nei ppt, ai conferimenti di incarico di CTU in moltissime fattispecie con quesito prefissato, alle udienze di ammissione delle prove, etc.

E’ vero che lo strumento è stato utilizzato male o abusato (separazioni, cause di lavoro o locatizie, ove è prevista la comparizione delle parti), ma era un provvedimento che andava, sotto certi aspetti e privato degli abusi di certi magistrati, nella direzione giusta.

Viene eliminata la possibilità di deposito telematico di cui al comma 11 del citato art. 83, del comma 11-bis in Cassazione, o la possibilità di estrarre la copia dei 415 bis in via telematica, e così di depositare memorie, documenti e istanze.

Con l'approvazione di un emendamento così semplicistico, si perderà la spinta all’aggiornamento, alla informatizzazione all’uso degli strumenti tecnologici negli uffici che ancora non li prevedono (Giudici di Pace e Cassazione, per esempio), laddove invece andrebbe implementata e migliorata anche ove già prevista (soprattutto nel penale, per la richiesta copie, per il fascicolo telematico del dibattimento e per il deposito di atti, come lista testi e impugnazioni).

Insomma, facendo finta di poter tornare alla normalità con un colpo di penna, con quel colpo di penna si torna indietro.

Nella migliore tradizione della faciloneria e del disimpegno tipicamente italiani.

P.S: i "tribunali" resteranno sostanzialmente chiusi.

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PUBBLICITÀ DELLE UDIENZE PENALI E PANDEMIA: UNA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE.

L’art. 83, comma 7, lett. e) del DL n. 18/20 ora L. 28/2020, facoltizza i capi degli uffici giudiziari a disporre la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’art. 472, comma 3, c.p.p. di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze.
In concerto con la lett. a) e la lett. c) del medesimo comma, che consentono l’adozione di misure limitative degli accessi agli uffici giudiziari in generale, ove evidentemente sono dislocate le aule di udienza, ciò comporta che dall’inizio della emergenza pandemica, tutte le udienze penali sono celebrate a porte chiuse.
Conta partire da un principio enunciato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 93/2010: “L’assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie: principio che – consacrato anche in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) – trova oggi ulteriore conferma nell’art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall’art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009.
Questa Corte ha avuto modo, in effetti, di affermare in più occasioni che la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione (sentenze n. 373 del 1992; n. 69 del 1991; n. 50 del 1989; n. 212 del 1986; n. 17 e 16 del 1981; n. 12 del 1971 e n. 65 del 1965). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971)”).
La attuale situazione di emergenza sanitaria parrebbe quindi poter rientrare nel novero delle eccezioni, essendo finalizzata alla tutela di valori di valore costituzionale (la salute, da cui anche il richiamo al comma 3 dell’art. 472 c.p.p. che si riferisce alla eventualità che la pubblicità dell’udienza possa “nuocere alla pubblica igiene”) e risulta da elementi obiettivi e razionali.
I punti deboli però sono altri.
Il sistema delineato dagli artt. 471 e ss. c.p.p., prima di tutto, consente al giudice e riserva a lui soltanto la decisione sulla pubblicità, ovvero (art. 472, comma 3 bis c.p.p. in relazione alla parte offesa minorenne), dispone in via generale che il procedimento avvenga porte chiuse.
La disciplina in esame invece toglie al giudice il potere di decidere, attribuendolo ai capi degli uffici giudiziari.
Sotto questo aspetto, esso limita la indipendenza e la libertà giudice, violando l’art. 101 comma 2 della Costituzione, assoggettando il giudice alla decisione del suo “capo ufficio” su un aspetto essenziale della natura del giudizio, quale la pubblicità delle udienze.
Inoltre, esso, attribuendo ai capi degli uffici la decisione, viola la riserva di legge contenuta nell’art. 111, comma 1, della Costituzione e il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, consentendo una differenziazione che non ha ragione di esistere dal momento che, trattandosi di emergenza pandemica, il rischio deve ritenersi uguale in ogni luogo del territorio, né il capo dell’ufficio ha gli strumenti necessari a valutarlo, differenziando la decisione su base territoriale, e a prendersi le conseguenti responsabilità.
Detto questo, l’obiezione viene naturale.
Basta che ogni singolo giudice avalli all’inizio dell’udienza la decisione del suo capo ufficio nel disporre la celebrazione a porte chiuse del dibattimento, e il principio è salvo.
In realtà, ciò sancirebbe proprio la sconfitta del principio in parola.
Infatti: 1) il giudice che volesse opporsi, discostandosi dalla decisione del capo ufficio, non avrebbe altro modo che sollevare la questione di legittimità costituzionale della disposizione citata; 2) il giudice che invece la avallasse, con proprio provvedimento all’inizio di ogni udienza, non potendo ritenersi che stia esercitando il potere di cui alla citata lett. e) del comma 7, art. 83, DL n. 18/20, che spetta solo ai capi degli uffici, dovrebbe trovare la sua giustificazione in relazione all’art. 472 c.p.p., che però pretende la valutazione in concreto di ogni singolo dibattimento ed è incompatibile con valutazioni generali e astratte, e ciò è tanto vero che non è stato ritenuto sufficiente il comma 3 del citato art. 472 c.p.p. per limitare gli accessi del pubblico alle udienze penali nella situzione attuale, ma il legislatore (il governo e poi il parlamento in sede di conversione) ha ritenuto indispensabile un provvedimento legislativo apposito, cioè quello in scrutinio e della cui legittimità costituzionale si dubita.
Tanto basta a ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 7, lett. e) del DL n. 18/2020, convertito nella L. n. 28/2020, in relazione agli artt. 3, 101, 111 della Costituzione.

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DECRETO RILANCIO: QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEL TERMINE PER PROPORRE QUERELA

Per comprendere il legislatore (anche e soprattutto quello governativo) italiano occorre malizia. La inflazione di rimandi, che peraltro una lex imperfecta, l’art. 3 della L. n. 69/2009, vieterebbe, ha un preciso scopo: quello di mimetizzare, nel senso di rendere di difficile discernimento, all’interprete, la portata effettiva di una norma, sperando che passi inosservata o che sia fraintesa.
Oppure che nessuno si accorga del pasticcio.
All’art. 221 del DL 34/2020 (cd. Decreto rilancio) compare una disposizione singolare: All'articolo  83  del  decreto-legge  17  marzo  2020   n.   18 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27,  al comma 2, è aggiunto infine il  seguente  periodo:  "Per  il  periodo compreso tra il 9 marzo 2020 e l'11 maggio 2020 si considera  sospeso il decorso del termine di cui all'articolo 124 del codice penale.".
Qui però il rinvio è banale, per fortuna.
L’art. 124 del codice penale è quello che stabilisce il termine di tre mesi per la presentazione della querela, trascorsi i quali il relativo diritto non può più essere esercitato, e l’azione penale non può essere iniziata o proseguita, venendo meno una condizione di procedibilità.
Il 19 maggio del 2020, il governo si occupa di questo termine, sancendone la sospensione tra il giorno 9 marzo 2020 e il giorno 11 maggio 2020.
Ma i termini processuali non erano sospesi già, in forza dei DL 6/2020, 18/2020 e 23/2020?
Ebbene no. Perché quei provvedimenti sospendevano i termini processuali, mentre il termine in parola è un termine sostanziale. Non a caso è nel codice penale e non nel codice di procedura penale, come, ahinoi, la prescrizione, della quale abbiamo già parlato in un altro post su questa pagina.
Quindi occorre dichiarare sospeso anche il termine per proporre la querela, onde evitare che una serie di reati possano rimanere impuniti per effetto di una querela presentata fuori termine a causa del lockdown. Il Governo si è accorto che la sospensione dei termini processuali sancita da quei tre decreti legge non può aver sospeso anche il termine per proporre querela, che non è termine processuale, come abbiamo visto, e quindi vuole correre ai ripari. Così facendo, pensa il legislatore governativo accorto, le persone offese che non hanno potuto querelare per effetto del lockdown possono farlo ora, godendo del prolungamento del termine relativo di altri 63 giorni.
Tutto sistemato quindi?
Ebbene no. Perché quando la norma vigente al momento del fatto e quelle posteriori sono diverse, si applica la legge più favorevole all’imputato (art. 2, comma 4, c.p.).
E al momento del fatto, se ante 19/05/2020, valevano i tre mesi dell’art. 124 c.p.: ergo la sospensione disposta dall’art. 221, DL n. 34/2020 non può applicarsi ai fatti, punibili a querela, commessi prima del 19/05/2020; facendo due conti, tutti coloro che hanno subito reati sino al 18 febbraio 2020 e non hanno potuto presentare querela per effetto del lockdown, non beneficeranno di nessuna proroga e una eventuale querela depositata anche successivamente al 18/05/2020, e quindi dopo il DL n. 34/2020, confidando nella proroga de qua, sarebbe comunque inevitabilmente tardiva se non intervenisse comunque nei tre mesi dal fatto, e l’azione penale non esercitabile e se esercitata non proseguibile.
Come nel caso della prescrizione, una norma inutiliter data, ennesimo frutto avvelenato di un governo approssimativo.

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ESEMPIO DI NOTE DI TRATTAZIONE SCRITTA PER LE CAUSE DI LOCAZIONE - OPPOSIZIONE IN RITO

I sottoscritti avvocati espongono quanto segue.

Visto il decreto del giorno 09/05/2020, pubblicato il successivo giorno 12/05/2020, con il quale era adottata per il presente procedimento la forma della trattazione scritta ex art. 83, comma 7, lett. h) del DL n. 18/2020, come convertito nella L n. 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020;

Considerato che la parte resistente si è costituita in giudizio durante il periodo di sospensione (08/05/2020), nel quale veniva a scadere il termine a ritroso di dieci giorni prima dell’udienza, come fissato dall’art. 416 c.p.c. e ricordato nel decreto di fissazione di udienza del 26/02/2020;

Considerato che tale costituzione dovrebbe pertanto ritenersi tardiva;

Rilevato d’altro canto che, a norma dell’art. 83, comma 2, D.L. 18/2020 “quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il rispetto”;

Considerato che il provvedimento del 9-12/05/2020 in effetti assegna, all’uopo, nuovo termine di dieci giorni prima dell’udienza di “trattazione scritta” per la costituzione del convenuto in aderenza alla disposizione citata;

Rilevato che, sotto altro profilo, la forma della trattazione scritta di cui alla lett. h), del comma 7, del citato art. 83 DL n. 18/2020, e come riportato dallo stesso Giudice nel citato provvedimento del 09-12/05/2020, è applicabile solo nei procedimenti che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti;

Considerato che il procedimento de quo verte in materia locatizia e pertanto a esso si applica, in forza del richiamo contenuto nell’art. 447 bis c.p.c., l’art. 420 c.p.c. che prevede la presenza delle parti personalmente in udienza, tanto che la loro assenza senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile dal giudice al fine del decidere, e che invero lo stesso provvedimento di fissazione d’udienza del 26/02/2020 disponeva la comparizione personale delle parti (o dei procuratori speciali);

Ritenuto che pertanto la “trattazione scritta” non appare applicabile al procedimento di cui in epigrafe;

Ritenuto altresì che l’invito contenuto nel medesimo provvedimento rivolto ai procuratori delle parti affinché rinuncino “espressamente, con apposita dichiarazione scritta resa nelle note stesse, alla pubblica udienza” non appare accoglibile a questo difensore, posto che non rinviene né nel codice di rito, né tanto meno nel citato DL n.18/2020, come convertito in legge e successivamente modificato, alcun potere dispositivo in tal senso in capo al difensore;

Considerato che una tale rinunzia potrebbe essere considerata nel proseguo del procedimento ed eventualmente nei gradi successivi nullità del procedimento, e costituire motivo di gravame in sede di legittimità in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.;

Considerato che ciò potrebbe comportare la responsabilità professionale dei sottoscritti difensori per aver dato corso con una condotta commissiva ed espressa, la rinunzia all’udienza di discussione, a una nullità in grado di pregiudicare la correttezza del procedimento e travolgere quindi ogni suo esito;

Ritenuto quindi di non poter rinunziare all’udienza di discussione;

Considerato altresì che l’udienza di discussione non può ritenersi pienamente sostituita dallo scambio di note scritte “contenenti le sole istanze e conclusioni” addirittura “tramite rinvio a quelle già formulate in atti, già depositate”, venendo meno il profilo argomentativo e persuasivo proprio della discussione orale, nonché un effettivo contraddittorio sulle istanze e conclusioni della controparte, non conoscibili in tempo reale, e con ciò potendo porsi in contrasto l’art. 83, comma 7, lett. h) del DL n. 18/2020, come convertito nella L n, 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020 con l’art. 24 della Costituzione sotto il profilo del diritto di difesa e con l’art. 111 della Costituzione sotto il profilo della garanzia del contraddittorio;

Ritenuto comunque di svolgere istanze e conclusioni per la “trattazione scritta” nel rispetto del provvedimento del 09-12/05/2020 al fine di non essere considerati assenti all’udienza così convocata, di cui all’avviso contenuto nel provvedimento medesimo;

quanto sopra premesso e ritenuto, i sottoscritti avvocati impugnano e contestano quanto dedotto dalla parte resistente nella propria comparsa di costituzione e risposta, poiché infondato in fatto e diritto, chiedendo l’integrale rigetto delle avverse conclusioni, riservata ogni più articolata controdeduzione alle medesime, e

CHIEDONO

che l’On. Tribunale adito voglia così provvedere:

In rito

  1. Revocare il provvedimento di “trattazione scritta” del 09-12/05/2020, fissando l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.;

nel merito

  1. Rigettare la richiesta di provvisoria esecuzione anche parziale del decreto ingiuntivo opposto, essendo l’opposizione fondata su prova scritta;

  2. Accogliere l’opposizione e le istanze e conclusioni già proposte nel ricorso introduttivo da ritenersi in questa sede richiamate e integralmente trascritte.

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LA GIUSTIZIA SU APPUNTAMENTO, O DELLA DISCREZIONALITÀ DELLA GIURISDIZIONE: LA PORTA DELL’INFERNO

Era il giorno 8 marzo 2020, ma ormai pochi lo ricordano, quando il ministro Bonafede illustrava il primo Decreto Legge dettato dalla pandemia in tema di Giustizia. I termini processuali e le udienze sarebbero rimasti sospesi tra il 9 e il 22 marzo (art. 1, DL n. 11/2020): diamo quindici giorni di tempo agli uffici giudiziari per organizzarsi alle modalità del nuovo processo, disse.

Poi è intervenuto il DL 18/2020, che ha prorogato sino al 15 aprile la sospensione e poi il DL 23/2020 che l’ha portata sino al giorno 11/05/2020. Poi i termini hanno cominciato a decorrere e le udienze a riprendere.

I quindici giorni sono diventati due mesi, ma la macchina giudiziaria è rimasta al 9 marzo, anzi è peggiorata.

Al di là delle modalità telematiche per alcuni adempimenti, già peraltro in funzione da prima, per il resto si è avuta la prova che in questi due mesi (altro che 15 giorni) gli uffici non hanno organizzato nulla.

  1. UNEP di Roma: si possono “passare” esclusivamente gli atti “urgenti”, che hanno scadenza il giorno del passaggio, o quello immediatamente successivo. Ciò è palesemente illegale. Ogni cittadino ha diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e deve poter notificare atti di citazione, precetto, richiedere esecuzioni a prescindere da una presunta data di scadenza. Come avvocato ho il dovere e il diritto di promuovere l’azione giudiziaria, l’esecuzione o qualsiasi istanza giudiziaria dal giorno stesso in cui ricevo il mandato, né può l’Ufficio, nemmeno se confortato da una legge (art, 83, comma 7, lett. a) DL 18/2020 che deve ritenersi incostituzionale; è inammissibile una sospensione della giustizia dal 9 marzo al 31 luglio) limitare per sei mesi il diritto di cui all’art. 24 della Costituzione.

  2. Udienze: ogni singolo magistrato decide in pratica del tutto autonomamente quali processi tenere. Le indicazioni dei capi degli uffici giudiziari (le cc.dd. linee guida vincolanti) assurte a fonte di diritto in base all’art. 83, comma 7, lett. d) del DL 18/2020, oltre che violative dello stesso principio costituzionale già evidenziato, appaiono di difficile controllo da parte dell’utenza, che non è tempestivamente avvisata su quali processi si trattino, né sulle ragioni della scelta. Ci troviamo a subire le scelte discrezionali e incontrollabili dei magistrati. Le stesse istanze presentate dagli avvocati vengono tranquillamente ignorate (personalmente ho dovuto sollecitare l’intervento del Presidente per provvedere su una istanza di rinvio ai sensi dell’art. 83 comma 2 DL 18/2020 IL GIORNO PRIMA DELL’UDIENZA CHE NON SI SAREBBE COMUNQUE TENUTA, ma alla quale in difetto avrebbero dovuto recarsi avvocati e coniugi per non rischiare che essa si tenesse in loro assenza). Lascio perdere ogni considerazione sulle trattazioni scritte illegali e contra legem utilizzate in tanti procedimenti, di cui ho scritto nei precedenti post.

  3. Cancellerie e uffici: accessi per appuntamento, come da lett. c) del medesimo comma 7 dell’art. 83 DL 18/2020. Con i termini che decorrono e l’attività ripresa, è inammissibile dover prenotare ogni singolo accesso, sia perché si rischia di poter fare un solo adempimento al giorno, sia perché le modalità di prenotazione (via e-mail) lasciano all’ufficio la scelta del giorno e dell’ora dell'appuntamento, cui l’utente deve necessariamente adattarsi, sacrificando ogni altra attività professionale. Inoltre, gli appuntamenti, ad esempio alla procura presso il GdP penale di Roma (e probabilmente con modalità e tempistiche non tanto differenti anche negli altri uffici) sono presi con intervalli di trenta minuti, sicché in una mattinata dalle 9 alle 13 si possono ricevere al massimo 8 utenti. A Roma significa di fatto non offrire alcun servizio.

Sommariamente questo il panorama dopo una settimana di “apertura” degli uffici giudiziari.

Probabilmente per cancellieri, impiegati, magistrati, questa situazione si avvicina molto al paradiso: contatti limitati con gli avvocati, sia in ufficio, sia in udienza, istanze limitate a proporre conclusioni e richieste non corredate da noiose argomentazioni, nessun contraddittorio in aula di fronte al giudice, nessuna necessità di stare a sentire petulanti avvocati.

Per la giustizia è l’anticamera dell’inferno.

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L’AVVOCATO AI TEMPI DEL COVID-19: UN PUNTO DI NON RITORNO.

L’imperversare della pandemia è stata una occasione d’oro per l’amministrazione della giustizia.

L’occasione di liberarsi degli avvocati, di quei fastidiosi professionisti, mestieranti o praticoni che ancora pretendono di rappresentare e far valere i diritti dei cittadini.

Il DL n. 18/2020 ha aperto uno spiraglio, nel quale la magistratura si è intrufolata, sfondando la porta.

Esso prevede per esempio lo svolgimento delle udienze per trattazione scritta nei soli casi in cui era prevista la partecipazione dei soli difensori delle parti e non di altri soggetti (art. 83, comma 7, lett h)).

Ebbene, molti giudici hanno esteso, del tutto illegalmente, tale modalità di svolgimento delle udienze a procedimenti nei quali la presenza di altri soggetti, in particolare delle parti, è non solo prevista, ma obbligatoria (rito del lavoro, delle locazioni, separazione personale dei coniugi).

Inoltre, detta trattazione scritta prevede, allo stesso articolo, che gli avvocati debbano limitarsi a depositare solo istanze e conclusioni, senza quindi la possibilità di argomentare.

In buona sostanza, limitarsi a riportare l'oggetto della domanda, il petitum, (reintegra nel posto di lavoro, assegno di mantenimento, risoluzione di un contratto, risarcimento del danno, ovvero il rigetto di questi, facilissimo in questo caso, no?) senza poter minimamente dedurre e discutere il fondamento giuridico della azione.

E l’avvocatura? I Consigli degli Ordini territoriali che fanno? Protestano? Difendono l’orgoglio e la dignità della professione?

No. I Consigli e i loro presidenti sottoscrivono i protocolli e avallano le “linee guida” (la nuova fonte atipica e illegale di norme processuali) dettate dai magistrati.

Attenzione, perché il limite del 31 luglio 2020, di cui al comma 6 dell’art. 83 come periodo nel quale si possono adottare “misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari”, NON è replicato al successivo comma 7; certo, il rinvio pare automatico, ma ciò che non è espressamente scritto è sempre discutibile (spesso lo è anche l’ovvio), lo sappiamo bene.

Il rischio è che ormai restano solo alcuni cardini da divellere, poi dell’avvocatura resterà solo il ricordo.

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LA TRATTAZIONE SCRITTA NELLE CAUSE CON RITO LOCATIZIO, LAVORO E NELLA SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI.

In un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo in materia locatizia e quindi soggetto al rito speciale, il Giudice con proprio decreto fissa l'udienza per la "comparizione personale delle parti (o dei loro procuratori speciali)".

Interviene il DL n. 18/20 e successive conversioni con modifiche  e integrazioni, e lo stesso giudice "esaminate le disposizioni emergenziali che consentono, a date condizioni, lo svolgimento delle udienze che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni" fissa la trattazione mediante "udienza scritta".

Quindi il giudice dispone un rito che non può essere adottato laddove - come nella fattispecie, e come esso stesso aveva scritto in aderenza all'art. 83,comma 7, lett. h), DL n. 18/2020 - sia prevista e necessaria la presenza non solo dei difensori ma anche delle parti, come appunto il rito locatizio.

Inoltre, come ciliegina sulla torta, "INVITA i procuratori delle parti a rinunciare espressamente, con apposita dichiarazione resa nelle note stesse, alla pubblica udienza"(le enfasi sono del Giudice).

Considerazioni:

1) il giudice viola consapevolmente l'art. 83 comma 7, lett. h) DL n. 18/2020, ben sapendo di non potere applicare la trattazione scritta a un procedimento che prevede la necessaria presenza delle parti in udienza (art. 420 c.p.c.);

2) lo fa onerando i difensori di rinunciare a un diritto indisponibile quale è quello della celebrazione della udienza di discussione (infatti il DL 18/2020 non prevede né consente siffatta rinunzia, né tanto meno la prevede il codice di rito).

Ne discende che anche laddove gli avvocati delle parti accettino tale modo di procedere, ogni provvedimento sarebbe invalido per errore in procedendo, essendo in questo caso illegale la procedura per trattazione scritta con violazione del contraddittorio e quindi rilevabile d'ufficio, e invalida l'eventuale rinuncia del difensore alla udienza di discussione.

Facciamo sommessamente presente che il codice, art. 162 c.p.c., prevede espressamente che laddove la nullità sia imputabile  al cancelliere, all'ufficiale giudiziario o al difensore, il giudice "può condannare quest'ultimo al risarcimento dei danni causati dalla nullità".

Ma se la nullità dipende dal provvedimento del giudice?

L'errore del giudice ricade sulla parte, ovviamente.

Aggiornamento: la trattazione scritta è utilizzata da alcuni giudici del Tribunale di Roma per lo svolgimento delle udienze presidenziali di separazione personale consensuale dei coniugi.

Tale modalità, alla luce del disposto dell'art. 711 c.p.c. e della citata lett. h) del comma 7 dell'art. 83 DL n. 18/2020 appare illegittima, essendola trattazione scritta utilizzabile, a norma della citata disposizione, solo per le udienze ove sia prevista la comparizione dei soli difensori delle parti.

Le separazioni personali dei coniugi, anche se consensuali, impongono la presenza in udienza dei coniugi anche ai fini del tentativo di conciliazione, che pur se ormai mera formalità, deve essere esperito dal giudice ai sensi e secondo le modalità dell'art. 708 c.p.c., né esiste nella normativa la possibilità di rinunciare a tale comparizione personale da parte dei coniugi o dei loro difensori.

Le dichiarazioni di rinuncia in tal senso che codesti magistrati richiedono alle parti e ai loro difensori sono invalide, nulle e inefficaci, e invalidano l'intero procedimento.

A mio avviso sono anche foriere di responsabilità professionale.

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ESEMPIO DI ISTANZA DI MODIFICA E QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA "TRATTAZIONE SCRITTA" IN APPELLO.

I sottoscritti avvocati espongono quanto segue.

Visto il decreto del giorno 11/05/2020 con il quale era adottata la forma della trattazione scritta ex art. 83, comma 7, lett. h) del DL n. 18/2020, come convertito nella L n. 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020;

Considerato che la parte appellata non è costituita in giudizio;

Considerato che a norma dell’art. 347 c.p.c. essa avrebbe avuto termine sino a venti giorni prima dell’udienza del 20/05/2020, per procedere in tal senso;

Considerato altresì che il richiamato DL n. 18/2020 ha sancito la sospensione dei termini processuali dal 09/03/2020 compreso al giorno 11/05/2020 compreso, di tal ché il detto termine per la costituzione dell’appellato è venuto a cadere nel periodo di sospensione;

Rilevato che la notificazione dell’appello è intervenuta a mezzo del servizio postale con raccomandata a/r spedita il giorno 17/12/2019 e ricevuta il 18/12/2019 (come da cartolina a/r che si deposita) e che pertanto, per effetto dell’intervenuta sospensione dei termini di cui all’art. 83 cit., il termine a comparire deve così computarsi: dal 19/12/2019 al 08/03/2020 giorni 80 e dal 12/05/2020 (compreso) al 19/05/2020 (trattandosi di termini liberi) giorni 8, per complessivi giorni 88;

Che quindi il termine dilatorio a comparire non appare, per effetto della sopravvenuta sospensione, rispettato;

Ritenuto pertanto, laddove permanga la contumacia dell’appellato, che debba essere dichiarata la nullità ai sensi dell’art. 164, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 163 bis e art. 342, ult. comma, c.p.c., della citazione d’appello, con assegnazione all’appellante di un termine perentorio per la sua rinnovazione ai sensi dell’art. 164, comma 2, c.p.c., ovvero comunque rimettere l’appellante in termini per l’incombente, non essendo la nullità a esso imputabile;

Rilevato poi che, a norma dell’art. 83, comma 2, D.L. 18/2020 “quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il rispetto”;

Considerato che seppure la costituzione in giudizio della convenuta potrebbe comunque avvenire il giorno stesso dell’udienza e anche sanare l’intervenuto mancato rispetto del termine a comparire, nondimeno, in caso di udienza “orale” avanti il Collegio, all’appellante sarebbe consentito prendere cognizione della avversa comparsa, in maniera da proporre in udienza ogni conseguente istanza alla Corte;

Considerato che invece la trattazione con note scritte d’udienza sino alle ore 10.00 del 20/05/2020 non consentirebbe, da parte della difesa dell’appellante, di conoscere la avversa costituzione e le avverse deduzioni, anche in relazione al termine a comparire e alla sua eventuale sanatoria, se non a “udienza” esaurita, e quindi non la porrebbero in grado di controdedurre e orientare istanze e conclusioni anche in considerazione delle avverse tesi difensive;

Considerato altresì che la stessa parte appellata, confidando nel rinvio da disporsi ai sensi del citato art. 83 DL n. 18/2020 stante la ricaduta in regime di sospensione il termine di costituzione a ritroso ovvero nella nullità per sopravvenuto omesso rispetto del termine a comparire e quindi della necessaria rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello, potrebbe lamentare una violazione dei suoi diritti difensivi;

Ritenuto che la trattazione scritta, per le ragioni sopra esposte, potrebbe tradursi in una violazione del contraddittorio e dei diritti di difesa per entrambe le parti;

Ritento che, sotto questo profilo, l’applicazione della trattazione scritta di cui alla lett. h), del comma 7, del citato art. 83 DL n. 18/2020, nei procedimenti ove entrambe le parti non siano costituite, potrebbe porsi in contrasto con gli artt. 24, commi 1 e 2 e 111, commi 1 e 2 della Costituzione;

Che quanto alla rilevanza della questione essa deriva dal fatto che la trattazione secondo l’una o l’altra disciplina ha effetti immediati sulle scelte processuali delle parti e sulla loro possibilità di conoscere le avverse difese e proporre istanze, deduzioni e conclusioni in relazione a esse;

Che quanto alla non manifesta infondatezza, non può negarsi che, laddove vi sia una parte ancora non costituita, il cui termine a ritroso per la costituzione è spirato in periodo di sospensione, la trattazione scritta precluda la possibilità di proporre appello incidentale e le altre eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’Ufficio; che la parte appellata contumace inoltre non avrebbe diritto alla comunicazione del decreto con cui è stata disposta la trattazione scritta, di tal ché confiderebbe nello svolgimento ordinario della udienza, non essendosi peraltro potuta costituire tempestivamente per la scadenza del termine a ritroso nel periodo di sospensione e potendo confidare sulla necessità di rinvio per effetto del citato comma 2 del ripetuto art. 83 ovvero ai sensi dell’art. 164 c.p.c.; che la citata disciplina non regolamenta, in caso di trattazione scritta, i termini e le modalità di proposizione di tali domande e anzi parrebbe derogare irragionevolmente agli artt. 343 e 347 c.p.c. in relazione all’art. 166 c.p.c. e dell’art. 167 c.p.c.; che, ancora, la mera enunciazione per iscritto di istanze e conclusioni appare limitativa del diritto di difesa, ove a esse non si aggiunga la imprescindibile possibilità di argomentarle e alla luce dell’impossibilità di fatto di conoscere “in tempo reale” quelle proposte da controparte; che, nella fattispecie, le modalità di trattazione scritta non consentirebbero la valutazione in contraddittorio sulla questione dell’intervenuto mancato rispetto del termine a comparire e sulla sua eventuale sanatoria o sui provvedimenti da adottare in relazione a esso; che tale regime non appare compatibile con il sistema delineato dai citati riferimenti normativi costituzionali, non garantendo il diritto di difesa, il contraddittorio e il giusto processo.

Per quanto sopra, i sottoscritti avvocati, richiamate tutte le disposizioni legislative sopra evidenziate,

CHIEDONO

che l’On. Corte adita voglia modificare l’ordinanza nel senso di

  1. fissare nuova udienza e conseguente termine per la costituzione dell’appellato ex art. 83, comma 2, DL n. 18/2020, come convertito nella L. 27/2020 e modificato con il DL n. 28/2020, nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 167, 168, 343 e 347 c.p.c. ed in esito, in presenza dell’eccezione di parte, sì da non ritenere sanato il difetto di rispetto del termine a comparire, e disporre la rinnovazione della notificazione della citazione d’appello o rimettere l’appellante in termini per procedere in tal senso e per l‘effetto

  2. fissare nuovo termine perla rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello nel rispetto del termine a comparire, ovvero

  3. sin da subito fissare nuovo termine perla rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello nel rispetto del termine a comparire, ovvero

  4. sollevare le questioni di legittimità costituzionale come dedotte in narrativa, con ogni conseguenziale provvedimento.

Si allega: copia della cartolina A/R della notificazione dell’atto d’appello.

Salvis Juribus

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UDIENZE DA REMOTO: ILLEGITTIMA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO TRA PROCESSI CIVILI E PROCESSI PENALI.

Il comma 12-bis del DL n. 18/2020 (convertito nella l. 27/2020 e modificato dal DL n.28/2020) concerne le udienze nei processi penali e in particolare dello svolgimento delle stesse “da remoto”.
Nell’ultimo periodo è stato aggiunto che dette disposizioni non si applicano “salvo che le parti vi consentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti”.
Detta disposizione appare determinare un ingiustificato discrimine nella parte in cui non prevede consimili eccezioni nel processo civile. Se è vero infatti che l’udienza di discussione penale è ben diversa dalla udienza di precisazione delle conclusioni nel civile, è altrettanto vero che il processo civile prevede discussioni orali (rito lavoro, locatizio, 281 sexies) e udienza di escussione testimoni, di esame delle parti e dei consulenti tecnici.
In siffatte circostanze non può ritenersi che il processo civile possa offrire alle parti garanzie di oralità e contraddittorio inferiori a quelle penali.

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RIPARTENZA DELL'ATTIVITÀ GIUDIZIARIA, UDIENZE E ACCESSO AGLI UFFICI. LETTERA APERTA.

L'art. 83 del DL 18/20, come integrato dal DL 23/20, convertito nella L. 27/2020, e modificato dal DL n. 28/2020, nello stabilire la sospensione dei termini sino al giorno 11/05 p.v., prevede al comma 7, lett. g) la possibilità di procedere al rinvio delle udienze a data successiva al 31/07/2020 dei procedimenti civili e penali non rientranti nelle categorie URGENTI di cui al comma 3 del medesimo articolo.

Dai provvedimenti che stanno adottando i capi degli uffici giudiziari, questa pare la strada imboccata, salvo la trattazione, come le modalità "da remoto" o per "trattazione scritta" dei detti casi urgenti ovvero di quelli iscritti antecedentemente al 01/01/2016.

In altra parte di questo sito, potrete leggere le considerazioni su tali modalità di svolgimento delle "udienze".

Quello che qui importa invece, è che gli uffici amministrativi, UNEP e cancellerie, stanno adottando orari ridotti e ingressi contingentati molto limitati.

Inoltre, alcune attività (rilascio copie, certificazioni, etc.) sono subordinate alla dichiarazione di assoluta urgenza e indifferibilità dell'incombente.

Come se, per esempio, ottenere una sentenza esecutiva potesse non essere urgente e indifferibile dopo cinque o più anni di giudizio.

La verità è che, anche al di là delle scadenze processuali, delle prescrizioni e delle decadenze, l'attività dell'avvocatura è per definizione urgente e deve essere compiuta il prima possibile, non fosse altro perché noi agiamo per tutelare i diritti del cliente.

Ci troveremo quindi a breve nella situazione in cui i termini decorreranno, i clienti chiederanno di poter attivare e incardinare le azioni cui tengono e che hanno diritto costituzionale di vedere promuovere (art. 24 Cost.), ma per svolgere tutte queste attività, sia che siano soggette a decadenza, termini perentori di procedibilità e ammissibilità, sia che derivino dalla esecuzione di un mandato conferito cui il cliente ha diritto, noi avvocati saremo costretti ad attività particolarmente gravose, se non inumane, o anche alcune di esse ci saranno vietate poiché non considerate dall'addetto di turno urgenti e indifferibili.

Tale stato di cose è naturalmente del tutto illegale.

Mi piacerebbe che il COA di Roma, e i COA del resto d'Italia, l'Organismo Congressuale Forense, il Consiglio Nazionale Forense e tutti i Colleghi, che conoscono benissimo la situazione, si attivassero, ognuno nel modo che gli è più congeniale, presso il Governo e al pur latitante Parlamento, nonché al Presidente della Repubblica, anche nella sua qualità di Presidente del CSM, organo mai stato tanto silente come in questi giorni, che molto semplicemente in queste condizioni nel circondario di Roma, ma probabilmente in molti altri circondari del Paese, la giustizia, già ferma da  due mesi, lo sarà per altri tre, e forse oltre, e di questa disfunzione il carico maggiore lo avranno gli avvocati che, oltre a vedere già azzerato il loro fatturato, correranno il rischio di non riuscire ad adempiere alle più banali attività soggette a termini perentori, o dovranno far pazientare i loro clienti, magari perdendoli, e tutto ciò non per loro colpa.

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ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA NOTA DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA DEL 6 MAGGIO 2020 – PROT. 13365, CON RIFERIMENTO ALLE DELIBERAZIONI IN MATERIA DI LAVORO – NULLITÀ DELLA SENTENZA

Nella nota, la Presidenza della Corte d’Appello, “ritenuta prevalente…sulla disciplina processuale la salvaguardia della salute pubblica” dispone che le udienze ex art. 429 c.p.c. siano sostituite con il deposito di conclusioni in via telematica nonché di note scritte ed eventuali repliche e che il dispositivo sia emesso entro dieci giorni dalla scadenza dell’ultimo termine.

Premesso che la prevalenza della salute pubblica sulle norme processuali non può evidentemente derivare da provvedimento del Presidente della Corte d’Appello, e che in ogni caso il contraddittorio e la difesa sono diritti costituzionalmente garantiti e il giusto processo è soggetto a riserva di legge ex art. 111 Cost., deve ricordarsi che la mancata contestualità tra udienza (anche nella diversa modalità di trattazione scritta) e lettura del dispositivo (o sua pubblicazione scritta) rende radicalmente nulla la sentenza.

 “Nelle controversie soggette al rito del lavoro l'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ai sensi dell'art. 156, secondo comma, c.p.c. ., la nullita' insanabile della sentenza per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio e di immutabilità della decisione, dovendosi ritenere, ove l'omissione abbia riguardato la decisione assunta dal giudice d'appello, che la Corte di cassazione, qualora la nullità sia stata dedotta come motivo di impugnazione, debba limitare la pronunzia alla declaratoria di nullità con rimessione della causa al primo giudice senza decidere nel merito, trovando applicazione tale ultima regola, desumibile dagli artt. 353 e 354 c.p.c. ., esclusivamente nei rapporti tra il giudizio di appello e quello di primo grado (Cass. 8 giugno 2009, n. 13165." Cass., sez. VI civile, 28 novembre 2014, sentenza n. 25305.

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ILLEGITTIMITÀ DELLA SOSPENSIONE DEL CORSO DELLA PRESCRIZIONE DI CUI AL COMMA 4, ART. 83 DL N. 18/2020 (COME CONVERTITO NELLA L. 24 APRILE 2020, N. 27), PIÙ ALTRE VALUTAZIONI PER I REATI COMMESSI IN REGIME DI EMERGENZA COVID-19.

L'art. 83, comma 7 del DL n. 18/2020, come convertito nella L. n. 27/2020, stabilisce che "nei procedimenti penali in cui opera la sospensione dei termini ai sensi del comma 2 sono altresì sospesi, per lo stesso periodo, il corso della prescrizione....".
Tale sospensione deve ritenersi illegittima.
In primo luogo la prescrizione è istituto di diritto penale sostanziale, che non ha alcun legame con la diversa natura giuridica dei termini processuali.
Non a caso, la sospensione feriale dei termini NON incide sulla prescrizione.
Inoltre, la norma di cui all'art. 83 cit., che sospende la prescrizione, non può applicarsi comunque, in ragione del principio di cui all'art. 2 codice penale sulla successione delle leggi nel tempo e art. 25 Cost., ai reati commessi prima dell'entrata in vigore del citato art. 83, DL 18/2020.
Per i reati commessi successivamente al giorno 11 maggio 2020, essa  non ha senso, poiché il dies a quo del decorso è successivo.
Per i reati commessi tra il giorno 9 marzo 2020 e il giorno 17 marzo 2020, in forza del DL 11/2020 che aveva fissato la sospensione sino al 22 marzo, il decorso della prescrizione decorre dal 23 marzo 2020, non potendosi applicare la proroga al giorno 15 aprile, intervenuta, DOPO il fatto, con il DL 18/2020 del giorno 17 marzo 2020.
Per i reati commessi dal 17 marzo al 07/04/2020, in forza del DL 18/2020, il periodo di prescrizione decorre dal 16 aprile 2020, non potendo applicarsi il successivo DL 23/20 del giorno 08/04/2020, che ha prorogato la sospensione al giorno 11/05/2020.
Per i reati commessi successivamente al giorno 08/04/2020 e sino al 11/05/2020 il periodo di prescrizione decorre invece dal giorno 12/05/2020.

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ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA TRATTAZIONE DELLE UDIENZE DA REMOTO OVVERO CON TRATTAZIONE SCRITTA

Per coloro che hanno ricevuto avvisi di trattazione scritta ovvero di trattazione orale da remoto dell’udienza, rappresento la possibilità di eccepire la illegittimità costituzionale dell’articolo 83 comma 7, lett. f) e lett. h), D.L. 18/2020 (convertito nella l. 24 aprile 2020, n. 27 e modificato con il D.L. 30 aprile 2020, n. 28), in relazione all'articolo 111, comma 1, della Costituzione, che prevede una riserva di legge in relazione alle dinamiche e alla garanzie del giusto processo. Il fiorire di protocolli tra tribunali, uffici giudiziari in genere e avvocatura non ha alcun valore normativo, né è fonte di diritto, né rispetta la riserva di legge stabilita dalla Costituzione, tesa a garantire i diritti delle parti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
In particolare non vi è indicazione certa del termine dilatorio per l'avviso di trattazione, né sulle modalità di svolgimento, sui poteri delle parti e del giudice, non viene impedita la registrazione dell'udienza dalle parti o dai soggetti comunque coinvolti, non sono indicate le modalità di avviso delle parti contumaci o di quelle non ancora costituite, quelle per la esibizione e produzione di documenti in udienza, tra gli esempi. 

Inoltre, la trattazione scritta prevede solo la possibilità di depositare note contenenti le sole istanze e conclusioni, con la illegittima  esclusione della parte argomentativa, indispensabile alla nostra professione, ed espressione diretta e irrinunciabile  dei principi di cui agli artt. 24 e 111 Costituzione.

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RICORSI CONTRO SANZIONI AMMINISTRATIVE EMERGENZA COVID - 19 

I seguenti motivi di ricorso fanno riferimento in special modo alle violazioni sul divieto di uscire dalla propria abitazione contestate sino al 31/03/2020 [motivo 1)], e in occasione di dichiarazioni in cui si sosteneva di essere usciti per recarsi presso un centro commerciale che si sapeva aperto ma che è risultato poi essere chiuso [motivo 3)].
Il motivo n. 2) invece può essere esteso a tutte le violazioni del divieto di uscire dalla propria abitazione.
1) La contestazione fa riferimento al DL 19/20 del 25/03, ma tale provvedimento NON stabiliva direttamente la limitazione a uscire dalla propria abitazione, limitandosi a conferire il relativo potere al governo, da esercitare con dpcm.
Il relativo potere è stato esercitato con dpcm del 1/4, che ha prorogato i dpcm del 8, 9, 11 e 22 marzo.
All'epoca della contestazione (fino al 31/03/2020),  il dpcm vigente faceva leva sul DL 6/20 del 23 febbraio, ma tale decreto legge NON prevedeva né conferiva al governo il potere di vietare di uscire dall'abitazione.
2) Il divieto di uscire dalla propria abitazione non inerisce alla libertà di circolazione di cui all'art. 16 Costituzione. Quella norma costituzione si riferisce alla chiusura di ambiti territoriali definiti e non all'intero territorio nazionale; il Costituente non ha previsto la possibilità di una pandemia tanto estesa quanto quella in cui ci troviamo, ma la lacuna costituzionale non può essere coperta con legge ordinaria, né può pretendersi, e ritenersi costituzionalmente accettabile e compatibile con il sistema rigido e tassativo delle limitazioni alle libertà fondamentali, una interpretazione estensiva della possibilità di limitazione del diritto di circolazione sino a comprendere anche il divieto di uscire dalla propria abitazione. La libertà in questione allora è invece la libertà personale, di cui all'art. 13 della Costituzione, che non ammette forma di detenzione alcuna né "qualsiasi altra restrizione della libertà personale" se non per atto motivato della autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge (riserva di legge e di giurisdizione). A conferma di ciò si ragioni sul fatto che, a norma dell'art. 284 c.p.p. "l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare", con evidente eguale trattamento delle due situazioni di costrizione personale. Né vale obiettare a contrario che nello specifico (nei dpcm) il divieto di uscire non è assoluto, poiché anche gli arresti domiciliari sono compatibili con la possibilità di uscire per determinate ragioni (art. 284, comma 3, c.p.c.. Tutti i provvedimenti legislativi (DL 19/20) e i dpcm (22/3 , 01/04 e 10/04) che limitano la possibilità di "uscire di casa" si pongono quindi al di fuori della Costituzione. Peraltro, trattandosi nello specifico di dpcm, e quindi di fonti non primarie il giudice può disapplicarle direttamente, senza dover rimettere la questione alla Corte Costituzionale. Oppure, il giudice può rimettere alla Consulta la questione relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 1, comma, 2, lett. a) del D.L. n. 6/20, e dell'art. 1, comma 2, lett. a) del D.L. n. 19/2020.
3) errore sul fatto che costituisce reato. ai sensi dell'art. 47 c.p. l'errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità, salvo che l'errore sia dovuto a colpa e il reato sia punibile anche nella forma colposa. Ne discende che,se il sanzionato è uscito nella convinzione che l'esercizio commerciale fosse aperto, non può essere punito ai sensi dell'art. 47 c.p., posto che il fatto della mancata ottemperanza al dpcm è punito solo a titolo di dolo. Questa normativa penale può per analogia essere estesa alla materia delle sanzioni amministrative.

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ALLA CASSAZIONE È CONSENTITO REINTERPRETARE LE DOGLIANZE ERRONEAMENTE SVOLTE DAL RICORRENTE

Con la sentenza n. 5609/2020, la Prima sezione civile della Corte di Cassazione stabilisce che laddove il ricorrente erroneamente presenti sotto una veste erronea la censura, e purché contenga tutti gli elementi di altro motivo di doglianza, essa può essere reinterpretata alla luce del principio "iura novit curia: narra mihi factum, dabo tibi ius" e quindi ritenuta ammissibile, valutata e decisa.

Nella fattispecie, il ricorrente aveva inquadrato la censura (mancato riconoscimento del danno da illegittima segnalazione nella centrale rischi) sotto il profilo della violazione di legge.

La Corte, rilevando invece che essa andava prospettata quale omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, e constatando comunque la presenza, al di là della erronea classificazione, degli elementi strutturali idonei alla differente prospettazione e valutazione ex art. 360, n.5) c.p.c., ha ritenuto l'ammissibilità della doglianza, l'ha esaminata e l'ha accolta. 

Una importante decisione che supera un formalismo a vantaggio della decisione nel merito, anche nelle questioni di legittimità sottoposte al vaglio della Corte di Cassazione.

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